Giuseppe Albanese vive e scrive a Messina, dove coltiva da sempre la passione per la letteratura e il disegno. Creatore di storie noir-punk, apprezzato da critica e pubblico per il suo stile narrativo originale, in bilico tra follia e quotidianità, tra reale e irreale. Collabora con radio e fanzine. Con la Ferrari Editore ha pubblicato la raccolta di racconti illustrati CIGLIA.
9 DOMANDE /// L’INTERVISTA
Il tuo primo ricordo legato a un libro? Il mio primo ricordo è legato a un fumetto in realtà, non so quale, ma ritengo fosse uno della Disney. Da quando sono stato in grado di camminare, l’unica cosa che mi dava lo stimolo di mangiare era una storia. Mia madre comprava i fumetti, me li metteva davanti e li sfogliava leggendoli. Solo così mangiavo. Grazie a lei, per fortuna o sfortuna, ho imparato a leggere prestissimo e i classici diventarono i miei preferiti. Poi, crescendo, i gusti e le necessità del pensiero cambiarono.
Cosa ti ha spinto a scrivere e quando hai iniziato? L’impulso di comunicare. Ho cominciato prestissimo, mimavo da piccolissimo anche le storie che immaginavo. Non c’è stato mai un momento in cui io non pensassi a una storia, una frase o un pensiero logico.
Che cosa rappresenta per te la scrittura letteraria? Passione, bi-sogno di fuga, esigenza pedagogica, indagine interiore, lavoro parallelo? La scrittura letteraria è una mediazione fra osservazione e creatività. Alla fine sarà il libro a leggere te, è per questo che alcuni personaggi immaginari o anonimi, in cerca di un ruolo, si chiedono come interpretare se stessi; e spesso meritano di entrare nelle storie. La scrittura è un’idea in continuo fermento che insegue i cambiamenti dei codici, delle strutture, del modo in cui leggiamo il mondo e la tecnologia. Credo che ci sia in ogni scrittore una forma di parresìa, una libertà di parola sfrenata, portata all’eccesso, dovuta.
I tuoi stati d’animo del momento influenzano la tua scrittura? In maniera antagonista, si svolgono due processi nella mia mente. Il primo è determinato dalla necessità di fermare i pensieri, il secondo di lasciarli vagare, studiando l’ambiente, i dialetti, il costume, quindi tutto ciò che è possibile inglobare. Io ho diversi problemi con le mie emozioni. Di solito comunque scrivo quando sto meglio.
Quando scrivi quali sono i tuoi modelli? Gli scrittori di genere, Poe, Joe Abercrombie, Don DeLillo, Paul Auster, ma anche Conan Doyle, Alan Moore, Garth Ennis, la lista è lunghissima. Ogni mio racconto è pervaso da questi modelli che cito, uso e distruggo. I classici, da Joyce a Conan Doyle. La musica, classica a moderna. Per quello che riguarda la poesia, invece, il cyberpunk, il simbolismo, la scapigliatura, Dino Campana i poetes maudits e i testi di canzoni. Poeti come Poiein e Odile assumono come mezzo proprio e improprio ogni frammento che la poesia può estrarre, anche i codici del fumetto e della pittura. Il dadaismo, scelta naturale di usare il linguaggio come un arguto non-sense, porta a identificare la mia poesia e il mio mondo letterario a un giardino squisitamente nascosto, in cui nulla si può aggiungere. L’ideografia, che distingue la fonesi del linguaggio dalla sua reale forma, nei miei scritti si compone in versi nuovi, in cui a ogni immagine corrisponde una forma di musica distinta, per cui, ad esempio, l’oscurità diventa sine qua non. Le scelte stilistiche prescindono da una forma unitaria, sono espressione del tempo, del luogo e degli argomenti. Talvolta diventa racconto, talvolta verso, talvolta immagine. Si può desumere che la mia libertà di autore si sposa alla ricerca di nuove forme e al tentativo di dare nuova forma a ciò che è pregresso. Dunque, le scelte lessicali partono da Ezra Pound, in cui la lingua diventa universale, e come una nuova Babele si esprime in lingue diverse e tutto diventa incontrollabile. Non sono più i versi espressione delle mie idee, dei miei ricordi, del mio umore, ma sono io con la mia solitudine. Lawrence Joseph, poeta americano dai grandi spazi. Suoni onomatopeici, crisi e catarsi, che portano a uno status quo, a una conditio sine qua non. Dunque, stralci di vita vissuta, sogni e rocambolesche direzioni.
Scrittore senz’altro ma anche illustratore e fumettista. In quale ordine hai scoperto di avere queste passioni? Quale ti appartiene di più? La scrittura c’è sempre stata, non ho un momento della mia vita che non mi ricordi una storia inventata. Il disegno e la pittura sono recenti e nascono dalla pulsione o emergenza di dare anche forma e sostanza a quello che scrivo. Un’idea completa e difforme che si coniuga, divenendo un tutto.
Sei un autore con una forte coscienza civica e sociale. Nei tuoi racconti noir, approcciati con piglio crudo e punk, metti in luce i lati oscuri e le complessità del mondo. Lo fai per stimolare qualche domanda sul nostro presente e futuro o è una scelta di altro tipo? Gli scenari sono importanti così come l’uso dei personaggi. Ognuno di noi vive di vita propria, nel vero senso della parola, è espressione di una cultura più o meno inventata. Le domande sono sempre le stesse, il problema sono le risposte.
Perché leggere fa bene? Non sempre fa bene. Nel mio caso, mi mette spesso di fronte a dubbi o emozioni forti. Pone interrogativi, però, e permette di vivere e fare nostre migliaia di vite, lasciando prendere forma a nuove certezze e inganni, o più semplicemente ci si bea con un haiku, con un’equazione di primo grado o un testo di fisica. Penso che leggere sia la ricerca di una digressione che ci allontana da ciò che ci circonda. La domanda è: la cultura è importante o una semplice zavorra? Un po’ entrambe, ma se non abbiamo il coraggio di lasciare le nostre certezze e verità, per conoscerne altre, come possiamo comprendere e cambiare il mondo che ci circonda?
Tre aggettivi per definire Ciglia, il tuo ultimo libro. Userò tre parole: maledetto, purgatorio, estasi. E una poesia > Dopo la guerra, il cielo divenne terra. Satana vide l’oscenità del bene nelle proprie forme e disse: sarò luce, per dare senso al buio. Nonostante tutta la mia rabbia, sono ancora un topo in gabbia.