Delia Dattilo, scrittrice, musicologa, artista in movimento, da sempre impegnata in progetti e ricerche che cercano una dimensione ancestrale della Storia e dei luoghi. Per la Ferrari Editore ha ideato e dirige la collana Geologie umane. Ha pubblicato, inoltre, RELICS, un viaggio on the road in Calabria, tra immagini e parole.
6 DOMANDE /// L’INTERVISTA
Il tuo primo ricordo legato a un libro? I Raccontastorie, una raccolta straordinaria, con attori importanti a prestare la loro voce per dar corpo al testo e alle immagini. Un piccolo esperimento di multimedialità che ha certamente segnato l’immaginario dei bambini negli anni Ottanta. È una domanda che riapre un varco fra il mio presente e la mia infanzia: sono sempre stata affascinata dalla straordinaria secolare forza che emerge dalla trasmissione e dalla ricezione di fiabe e racconti, miti e leggende, il filo che collega i motivi di certe storie, anche a grandi distanze (mentali, culturali, attitudinali), oggi ridotte al minimo nel paradosso della virtualità.
Il senso di appartenenza al luogo, la geografia delle storie e i posti in cui accadono: quanto tutto questo è importante per chi scrive? Non posso e non saprei dire per chi scrive, in generale. Personalmente non sento un vero e proprio senso di appartenenza, forse perché sono la donna che sono, cioè in questo tempo e in questo spazio, confusi e affannati nell’atto di riconfermarsi con nuove regole. Sento la vibrazione della storia in alcuni posti, in altri meno – ma la ritengo una questione del tutto soggettiva. Questa vibrazione può essere forte al punto da provocare una volontà di ricerca, ma se è fine a se stessa e vissuta solo per il puro piacere di farsi suggestionare dalle corde della storia o da una sensazione arcana e indistinta (forse residui di sehnsucht) allora può diventare come una forma di dipendenza. E le dipendenze… È un po’ una chiusura in se stessi l’azione di ridefinirsi, oggi, orientandosi verso una ricerca del senso dell’appartenenza. Non intravedo in questo dinamiche di liberazione. Amo la terra dove sono nata e cresciuta, ma non penso di appartenere a lei, né che lei mi appartenga, dopotutto. Però ammetto un fondo di superficialità in questa affermazione, se penso a quanto accade in questo stesso momento a una porzione di umanità costretta in spazi e tempi culturali che non hanno scelto di occupare. È necessario recuperare la delicatezza e il tatto per accogliere, comprendere, amare tutti, aprirsi a tutti: il senso dell’appartenenza è, secondo me, qualcosa i cui confini non sono più geografici, ma di carne e ossa e sentimenti universali. Non facile, oggi, non impossibile, oggi.
L’attenzione (a volte ostilità) reciproca tra antropologia e arte è dovuta a qualche affinità elettiva, agli stili conoscitivi, al comune interesse per l’alterità culturale oppure a motivazioni semplicemente accidentali? Penso che gli antropologi abbiano motivo di bacchettare alcuni artisti del presente che rinchiudendosi nella contemplazione (talvolta nell’adulazione) delle proprie dinamiche esistenziali, nella cancrena del proprio ego, sembrano produrre proclami muti. Forse non hanno tutti i torti. In generale gli studiosi lo fanno, amano gli artisti eppure si tengono alla larga, spesso, dal loro modo di interpretare la realtà. L’indistinto, l’allusione, la sintesi, la concrezione in suoni o simboli, da un lato; il metodo scientifico, il rigore, la definizione, dall’altro. Sono utili entrambi, in modi miracolosamente divergenti, si oppongono alla natura – perlomeno in Occidente. Forse oggi c’è una progressiva tensione a convergere nuovamente, come in un ulteriore umanesimo. Alcune discipline cercano di dare ragione, senso e struttura a certi processi che avvengono nei tempi e negli spazi individuali e collettivi, scontrandosi, fondendosi, producendo e riproducendosi – psicologia, antropologia, linguistica, musicologia affondano le braccia in questioni del genere, da sempre. Io li percepisco e vivo come due latitudini diverse che viaggiano insieme attorno a un unico sole. Nell’immaginario comune, l’artista è concepito come colui che percorre un sentiero entro cui ha il diritto di perdersi – anzi, talvolta proprio la perdita diventa il motivo. Allo scienziato, invece, non sono concesse incertezze e instabilità, il suo percorso deve risultare fondato su definizioni e determinazioni. Forse sono entrambe idee stagnanti nella retorica e, di conseguenza, ci si attende da entrambi un comportamento conforme a queste due linee. Paradossale, nel tempo della libera circolazione. Nel mio primo libro ho cercato di fondere due linguaggi diversi: la riunione di due emisferi divisi nella vita e nel metodo, ma che con un grande sforzo di umiltà possono certamente dialogare e offrirsi molto. È stato un tentativo, l’inizio di un percorso che, in molti, hanno intrapreso già da tempo.
La novità di una fusion immagini e parole com’è maturata? Perché hai scelto questa direzione? Cosa implica questa trasform-azione? Le implicazioni, a dire il vero, ancora non le conosco. La fusione fra sintesi figurativa e linearità del discorso non sono nuove, percepisco solo il fine, il racconto di noi per noi. Per quanto lontano possano portarci la stazione spaziale o altri oggetti volanti nello spazio e nel tempo, siamo sempre noi a dover raccontare la cosa a noi stessi, da qui o da lì, nei modi che abbiamo saputo creare per accomodarci in pensieri e riflessioni che diano giustificazione, o allontanino o rappresentino una opposizione sempre più concreta al mistero della morte, della fine. Spingersi oltre i confini della materia è cosa umana. Di materie astratte o concrete ce ne sono moltissime, nello spazio sopra la terra come nella “terra di sotto”.
Tre aggettivi per definire Relics, il tuo primo libro. Crepuscolare, circolare e forse a suo modo sinistro.
I prossimi progetti futuri? È appena nato Fonofanie, secondo volume della collana Geologie Umane. Seguiranno altri studi e ricerche sulla stessa scia, per una visione plurale, multidimensionale di uno stesso tema o luogo.